Commento alla Corte di Cassazione – Sez. V Pen. – Sent. n. 17002 del 23/04/2024
Vi sono alcuni reati che si possono definire “silenziosi”. Essi sono, cioè, privi di testimoni che possano provare la verità della vittima. Molti di essi possono essere quelli che avvengono all’interno delle mura domestiche – in caso di maltrattamenti familiari – ove è spesso difficile che la persona offesa sia fornita di apposito “apparato probatorio”.
In questi casi l’attendibilità della vittima – spesso unica testimone dei fatti – diventa particolarmente rilevante.
Sulla tematica della attendibilità della parte denunciante si è espressa una recentissima sentenza della Cassazione del gennaio 2024 intervenuta nella fattispecie di atti persecutori. (Corte di Cassazione, Sez. V Penale – 24 Gennaio 2024 n. 3114). Il Collegio ha statuito che: “in tema di testimonianza, le dichiarazioni della persona offesa, costituitasi parte civile, possono essere poste, anche da sole, a fondamento dell’affermazione di responsabilità penale dell’imputato, previa verifica, più penetrante e rigorosa rispetto a quella richiesta per la valutazione delle dichiarazioni di altri testimoni, della credibilità soggettiva del dichiarante e dell’attendibilità intrinseca del suo racconto…. e, qualora risulti opportuna l’acquisizione di riscontri estrinseci, questi possono consistere in qualsiasi elemento idoneo a escludere l’intento calunniatorio del dichiarante, non dovendo risolversi in autonome prove del fatto, né assistere ogni segmento della narrazione”.
Ebbene, quanto chiarito dalla statuizione richiamata appare assolutamente logico considerando anche che gli effetti del reato di stalking si misurano, tra l’altro, in relazione ai riverberi psicologici causati al soggetto perseguitato, così che non potendosi – spesso – le lesioni misurare col metro dei referti medici e dei conseguenti danni biologici – esse devono risultare da un narrato coerente con i patimenti e con le mutate e peggiorate condizioni di vita che, le prolungate molestie, hanno causato alla vittima.
Proprio con riferimento ai danni psicologici che queste vittime subiscono una precedente sentenza della Cassazione (Sez. 5, n. 17795 del 02/03/2017) aveva già sottolineato che: “in tema di atti persecutori, la prova dell’evento del delitto, in riferimento alla causazione nella persona offesa di un grave e perdurante stato di ansia o di paura, deve essere ancorata ad elementi sintomatici di tale turbamento psicologico ricavabili dalle dichiarazioni della stessa vittima del reato, dai suoi comportamenti conseguenti alla condotta posta in essere dall’agente ed anche da quest’ultima, considerando tanto la sua astratta idoneità a causare l’evento, quanto il suo profilo concreto in riferimento alle effettive condizioni di luogo e di tempo in cui e stata consumata”.
Orbene, a fronte di tutto ciò la recentissima Corte di Cassazione in commento è intervenuta nuovamente in materia decidendo – in questo caso – di annullare la sentenza sottoposta al suo vaglio proprio perché non si evidenziava una fondata attendibilità della vittima. Dalla narrazione giudiziale è emerso, infatti, che fosse proprio la stessa denunciante a sollecitare il compagno affinché questi le scrivesse false minacce con il fine di farlo pubblicamente risultare un soggetto possessivo e geloso.
In effetti, tali modalità (le false minacce richieste dalla compagna) – per come emerge dalla lettura della sentenza – non erano le uniche utilizzate dal partner che – verosimilmente – induceva anche in altri tipi di molestie (quali l’invio di messaggi di gelosia rivolti direttamente ad amici della donna). Tuttavia, quello che merita qui di essere sottolineato, è che il comportamento, in questo caso, decisamente anomalo della denunciante ha portato la Corte a porsi domande sulla attendibilità della stessa. Le richieste particolari formulate dalla donna al partner, invero, stigmatizza la Cassazione: “pur non giustificando una condotta persecutoria, avrebbero richiesto una ponderazione che non è logico liquidare osservando che alcune delle condotte espressive di gelosia sono state realizzate non attraverso i c.d. social, ma con messaggi direttamente rivolti ad amici della ragazza”.
Concludendo, la reciproca ossessività nel rapporto ha – evidentemente – privato di veridicità i racconti della persona offesa che non appaiono in linea con le condotte osservabili nei soggetti perseguitati e abusati psicologicamente avendo, per come è dato leggere all’interno della statuizione in commento, la vittima stessa richiesto e ricercato, almeno in parte, le condotte possessive della quali poi si è lamentata.